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Quando il merito non basta: perché il successo non è (solo) questione di bravura

  • Immagine del redattore: Carla Ibba
    Carla Ibba
  • 7 apr
  • Tempo di lettura: 4 min



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Mi capita spesso di sentire persone dire: “Se ti impegni davvero, prima o poi avrai il giusto riconoscimento.”

È una frase rassicurante, quasi una preghiera laica: dà speranza, perché promette un esito positivo; rassicura moralmente, perché suggerisce che esiste un ordine giusto delle cose; e viene ripetuta spesso, come un mantra, proprio per mantenerne viva la forza.

Ma nel mio lavoro di psicologa – e nella mia vita – ho imparato che non funziona sempre così.


Ci piace pensare di vivere in una società meritocratica. Ci fa sentire al sicuro, ci dà una spiegazione ordinata del mondo: chi ha successo lo merita, chi resta indietro forse ha sbagliato qualcosa. Ma questa è una narrazione parziale. E, a volte, profondamente ingiusta.



Il bisogno di credere che tutto sia giusto


C’è un concetto in psicologia sociale che si chiama belief in a just world. È la nostra tendenza a credere che il mondo sia giusto, che le cose buone capitino a chi se le merita, e quelle brutte a chi ha fatto qualcosa per causarle.

È una difesa psicologica. Ci aiuta a sentire di avere il controllo. Ma ci rende ciechi.


Ci impedisce di vedere che il successo – nel lavoro, nella carriera, nella visibilità – non è distribuito solo in base al talento o all’impegno. Anzi. Spesso arriva a chi ha altri tipi di vantaggi.


Chi è dentro la rete vince prima


Nel discorso sul merito si riconosce ormai sempre più spesso l’importanza delle relazioni, ma il loro reale impatto continua a essere, a volte, minimizzato o normalizzato.

Chi ha accesso a reti sociali, famiglie influenti, ambienti stimolanti, parte da un gradino molto più alto.

Non è una colpa e nemmeno un merito.


Questo si chiama capitale sociale. E spesso vale più di una laurea, di anni di esperienza, o della passione.


Non sempre vince il più bravo, ma il più visibile


Nel mio lavoro incontro tante persone talentuose che faticano ad affermarsi. Sono competenti, preparate, profonde. Ma non si vendono. Non hanno il “pacchetto completo”.

Non sono carismatiche, non conoscono le persone giuste, non sono inserite nelle dinamiche di potere.


Al contrario, vedo anche persone con meno contenuti, ma grande sicurezza in sé, capacità di stare al centro, di piacere.

Ecco che scatta il meccanismo: vengono notate, promosse, celebrate. Non perché siano migliori, ma perché appaiono migliori.


Il sistema premia chi si adatta, non chi disturba


C’è anche un altro aspetto, più sottile: chi si conforma viene premiato. Chi sa “stare al gioco”, chi non mette in discussione le regole, chi è diplomatico al punto giusto, chi sa dove fermarsi. Questo vale soprattutto nei contesti professionali.


Chi invece porta pensiero critico, autenticità, differenza, spesso paga un prezzo.

Viene letto come scomodo, difficile, “non allineato”. E questo accade anche se è competente.



Il potere che si moltiplica (e i curriculum che parlano anche troppo)


Esiste, poi, un fenomeno sempre più evidente, in particolare nei contesti aziendali, istituzionali e accademici: la presenza di figure che ricoprono, contemporaneamente, numerosi ruoli di prestigio.

Sono CEO di un’azienda, vicepresidenti di un’altra, membri del consiglio direttivo di una fondazione, consulenti strategici per gruppi internazionali, tengono lezioni in qualche università.

Appaiono ovunque. Sembrano onnipresenti, multitasking, instancabili.


Eppure, spesso basta guardare con un po’ più di attenzione per rendersi conto che non si tratta solo di straordinario talento o ambizione incontenibile.

In molti casi, entrano in gioco altri fattori: l’accesso a reti privilegiate, il posizionamento in contesti favorevoli, e quelle eredità invisibili — culturali, sociali, familiari — che possono contare più delle competenze acquisite.

A volte, è anche questione di cognomi che aprono porte ben prima che una persona abbia la possibilità di dimostrare qualcosa.


È un sistema che tende ad autoalimentarsi: chi è già visibile, chi ha già un ruolo di rilievo, viene spesso ulteriormente selezionato e premiato.

La visibilità e il prestigio anticipano — e talvolta sostituiscono — la valutazione della reale competenza.


Queste figure diventano modelli di riferimento, raccolgono ammirazione, generano ispirazione.

Eppure, è importante mantenere uno sguardo lucido. Curriculum molto ricchi possono impressionare, ma non sempre raccontano davvero la qualità, la profondità o l’efficacia del contributo.

È utile — se non necessario — sviluppare un approccio più smaliziato, capace di distinguere tra forma e sostanza.

Non per sfiducia, ma per consapevolezza. Perché non tutto ciò che luccica è valore.



La fame di potere, visibilità e ricchezza


In molti casi, la presenza costante e trasversale di alcune figure nei ruoli di vertice non è solo il risultato di un sistema che le seleziona, ma anche di un forte desiderio individuale di centralità.

Parliamo di persone che non si accontentano di un incarico, di un riconoscimento, di un ruolo definito: vogliono tutto. Cercano visibilità, influenza, ricchezza.

Accumulano posizioni, titoli e vantaggi come fossero conferme continue del proprio valore.


Questa spinta nasce anche da un bisogno di essere sempre presenti, ovunque ci sia visibilità e riconoscimento.

Non basta avere un ruolo: serve essere in ogni spazio che conta, per sentirsi validi.

In questi casi, il potere non è più un mezzo per realizzare qualcosa, ma diventa un obiettivo in sé: essere al vertice, esserci, apparire.


A questo si accompagna spesso una forte attrazione per il possesso materiale. L’accumulo di ricchezza, di status, di privilegi diventa parte integrante di questo profilo: un modo per misurare il successo e per differenziarsi da chi resta fuori dai circuiti decisionali.


Il rischio, in questi casi, è quello della saturazione: le stesse persone occupano più spazi contemporaneamente, le stesse logiche si replicano in ambienti diversi,

e chi ha molto continua ad avere di più. Nel frattempo, chi è competente ma meno visibile resta fuori, schiacciato da un sistema che non redistribuisce né opportunità né ascolto.


E quindi?


Essere consapevoli che il merito non è l’unico fattore in gioco non è un invito al disincanto, ma alla responsabilità.

Comprendere le dinamiche che regolano la distribuzione delle opportunità significa saper leggere con più precisione i contesti in cui ci muoviamo e valutare con maggiore rigore ciò che chiamiamo “successo”.


Serve uno sguardo più attento, meno ingenuo, più critico — su chi ammiriamo, su chi promuoviamo, su chi ascoltiamo.

Perché anche questo, in fondo, contribuisce a costruire una cultura professionale più solida, più credibile, e forse, più giusta.



 
 
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